IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI
    Letti gli atti, udite le parti;
                             O S S E R V A
    D'Elpidio   Vincenzo  deve  rispondere  del  delitto  di  omicidio
 volontario  con  l'aggravante  di  avere  agito  per  motivi  futili,
 ravvisati  nel  fatto  che  l'azione  criminosa  venne  scatenata dal
 rifiuto della giovane vittima, Di Martino Diana, alle  sue  profferte
 amorose.
    Infatti,    secondo    la   ricostruzione   operata   dall'accusa,
 essenzialmente  sulla  base  della  confessione  del   prevenuto,   e
 sintetizzata nel capo di imputazione, il D'Elpidio ebbe a manifestare
 il  suo  sentimento  d'amore alla ragazzina la quale, in risposta, lo
 respinse schernendolo, cosi'  causando  una  furibonda  reazione  che
 conduceva  alla  soppressione di Diana, il cui cadavere veniva subito
 dopo dato alle fiamme.
    Nel corso  delle  indagini  preliminari  era  espletato  incidente
 probatorio  per  l'acquisizione  di perizia psichiatrica, redatta dai
 proff. De Fazio e Luzzago, che si  arricchiva  dei  contribuenti  del
 c.t.  del  p.m.,  prof. Marasco, del c.t. delle p.o., prof. Luperto e
 del c.t. dell'indagato, prof. Marchetti.
    In  maniera  univoca,  se  pur  attraverso  passaggi  parzialmente
 diversi,  sia i periti che i c.t. di parte concludevano nel senso che
 il D'Elpidio doveva ritenersi affetto da infermita' di mente  che  lo
 aveva  reso  totalmente  incapace di intendere e di volere al momento
 del fatto.
    Si pervenira cosi' all'udienza preliminare del 3 maggio 1993 nella
 quale  le  p.o.,  costituitesi  parte civili, producevono nuova c.t.,
 redatta ex actis dal prof. Fiori, che contestava il giudizio  di  non
 imputabilita'.
    La  difesa  dell'imputato  formulava  quindi richiesta di giudizio
 abbreviato sollecitando il g.u.p. a  valutare  la  correttezza  della
 imputazione, sostenendo che gli atti offrivano tutti gli elementi per
 poter  constatare,  anche  sul  piano di una sommaria delibazione, la
 incompatibilita' logico-giuridica  della  contestata  aggravante  con
 l'accertamento vizio di mente.
    A   fronte  quindi  della  declaratoria  di  inammissibilita'  del
 giudizio abbreviato in considerazione della  pena  edittale  prevista
 per  il  delitto  cosi'  come contestato e della impossibilita', alla
 luce della vigente normativa processuale, di una  previa  valutazione
 dell'imputazione  al  fine  di consentire il rito speciale in caso di
 sua  accertata  erroneita',   la   difesa   con   ampie   e   sottili
 argomentazioni  sollecitava  il  giudicante  a sollevare questione di
 legittimita' costituzionale del combinato disposto degli  artt.  438,
 439,  440  del  c.p.p.,  nella  parte in cui non consente un siffatto
 intervento valutativo dell'imputazione da parte del g.u.p.
    Ritiene il giudicante che gran parte delle  argomentazioni  svolte
 dalla  difesa dell'imputato vadano condivise imponendo di sollecitare
 un ulteriore intervento della Corte costituzionale, che per  il  vero
 si  e'  gia'  pronunciata  sulla  questione  in  senso  negativo  con
 ordinanze n. 163 del 3 aprile 1992, sottoponendo al suo vaglio  altri
 profili  che  non sembrano essere stati portati alla sua attenzione e
 quindi valutati.
    Per meglio ricostruire i termini della questione va detto in primo
 luogo che appare indiscutibile che, a seguito  della  sentenza  della
 Corte  costituzione  23  aprile 1991, n. 176, a fronte di imputazioni
 che comportino in astratto l'applicazione della  pena  dell'ergastolo
 non e' possibile in radice accedere al giudizio abbreviato.
    Altrettanto indiscutibile appare che, cosi' come evidenziato nella
 sentenza  n. 163/1992, le norme processuali vigenti non consentono di
 attribuire al g.u.p. un potere  di  sindacato  sull'imputazione  onde
 ammettere il giudizio abbreviato in caso di sua palese erroneita'. Ma
 proprio  tale  impossibilita' appare foriera di conseguenze rilevanti
 sul  piano  della  compatibilita'  con  i   principi   costituzionali
 desumibili  dagli  artt.  3, 24, 25 e 101 della Costituzione. Ritiene
 invero  il  giudicante  di  non  doversi  soffermare  affatto   sulla
 questione  di  merito  relativa  alla  compatibilita' dell'aggravante
 contestata con le risultanze dell'incidente probatorio e  delle  c.t.
 acquisite  in  atti,  proprio  perche'  tale giudizio e' inibito allo
 stato  della  legislazione  processuale,  risultando   proprio   tale
 inibizione  il  nucleo  della  questione che si intende sottoporre al
 supremo vaglio della Corte costituzionale.
    Puo' solo in questa fase rilevarsi che legittimi profili di dubbio
 emergono sulla correttezza della imputazione, e  che  sicuramente  il
 materiale  acquisito  in  atti,  caratterizzato  in particolare dalla
 formazione  anticipata  della   prova   peritale,   con   l'ulteriore
 contributo  delle varie c.t., consentirebbe una ampia valutazione sul
 punto.
    Vi  sarebbero  cioe'  tutte  le  condizioni  per   apprezzare   la
 congruita'  o meno delle risultanze peritali ed, in caso positivo, di
 considerare la compatibilita' dell'aggravante  con  le  stesse,  alla
 luce  della  copiosa  ed esauriente elaborazione giurisprudenziale di
 legittimita'.
    Cio'  premesso,  passando  al  merito della questione, va in primo
 luogo evidenziato come non sia vero in  assoluto  che  al  g.i.p.  (o
 g.u.p.)   non   sia   in   alcun   modo  consentita  una  valutazione
 dell'imputazioneche conduca ad un  diverso  apprezzamento  dei  fatti
 materiali  da cui possa emergere una diversa qualificazione giuridica
 della fattispecie criminosa.
    Cio'  invero  e'  senz'altro  possibile  ad  es.  al  fine   della
 valutazione  della  competenza,  sancendo l'art. 22 del c.p.p. che il
 g.i.p. puo' riconoscere la propria incompetenza "per qualsiasi causa"
 (e quindi evidentemente anche per ragioni  relative  ad  una  diversa
 valutazione  giuridica  del  fatto),  cosi'  come nel caso in cui una
 diversa qualificazione giuridica conduca ad apprezzare la sussistenza
 di una causa che estingue il reato o per la quale l'azione penale non
 poteva essere iniziata o  proseguita  (art.  425,  primo  comma,  del
 c.p.p.).
    Lo    stesso    g.i.p.   potrebbe   d'altronde   disattendere   la
 qualificazione giuridica del fatto operata dal p.m., e sulla cui base
 l'organo  d'accusa  abbia  formulato  richiesta   di   archiviazione,
 imponendo  ad  esso, ex art. 409 del c.p.p., la formulazione di altra
 imputazione e quindi determinando l'esercizio dell'azione penale.
   E' cosi' dato notare che, a parte il caso in cui si debba  emettere
 decreto  di  rinvio  a  giudizio  e  non  si  prospettino  ragioni di
 incompetenza (caso nel quale la diversa valutazione  dell'imputazione
 non  avrebbe  pratica  conseguenza,  data comunque la possibilita' di
 aggiustamenti nella fase dibattimentale ex  artt.  516  e  segg.  del
 c.p.p.  e  della  definitiva valutazione del giudice del dibattimento
 dinanzi al quale e' del  tutto  ragionevole  consentire  al  p.m.  di
 sostenere  la propria prospettazione accusatoria) nelle altre ipotesi
 in cui un diverso apprezzamento ha la conseguenza di  individuare  il
 giudice  naturale precostituito per legge, o di incidere sul corretto
 esercizio dell'azione penale, o di definire la posizione  processuale
 dell'imputato  ex art. 425, del c.p.p., cio' e' senz'altro consentito
 al g.i.p.
    Si pone allora un primo problema di valutazione, rilevante ex art.
 3 della Costituzione, della ragionevolezza di uno sbarramento  ad  un
 apprezzamento  dell'imputazione,  diversamente  consentito  nei  casi
 sopra  citati,  al   fine   della   valutazione   del   giudizio   di
 ammissibilita'  del rito abbreviato. Rito la cui competenza va in via
 prioritaria senz'altro  riconosciuta  al  g.u.p.,  salvo  le  ipotesi
 derogative  espressamente  sancite dalla legge come nella ipotesi del
 giudizio direttissimo, che comunque  possono  prospettarsi  solo  nel
 caso in cui l'udienza preliminare non venga celebrata.
    Potrebbe  obiettarsi  che in ogni caso il sistema non consente una
 possibilita' di esclusione delle circostanze del reato da  parte  del
 g.i.p., cio' desumendosi dal combinato disposto degli artt. 421, 422,
 424, 425 del c.p.p. cui le norme sull'abbreviato fanno riferimento.
    Ma  allora, come lucidamente osservato dalla difesa del prevenuto,
 non potrebbe non dubitarsi della ragionevolezza  dell'intero  sistema
 cosi'  delineato,  specie  alla  luce della modifica dell'art. 59 del
 c.p. che, introducendo  quale  nuovo  requisito  di  struttura  delle
 aggravanti  un coefficiente di colpevolezza, ha praticamente ridotto,
 se  non  annullato,  le  differenze  tra   elementi   essenziali   ed
 accidentali  del  reato,  con  la  conseguenza  di rendere ancor meno
 plausibili discriminazioni negli  interventi  del  g.i.p.  a  seconda
 della natura dell'elemento del reato da valutare.
    E'  stata cosi' bene evidenziata la irrabionevolezza di un sistema
 che in linea generale non consenta la valutazione di ricorrenza delle
 circostanze,  permettendo  di  contro  di  risolvere  situazioni   di
 incompatibilita'  tra fattispecie che si presentino tra loro autonome
 ed  in  posizione  di  esclusione  reciproca  allorquando   risultino
 sovrabbondanti nel capo di imputazione.
    Si  fa cosi' l'esempio, tratto dai precedenti giurisprudenziali di
 questo stesso ufficio, del caso in cui un medesimo  fatto  sia  stato
 ricondotto  contemporaneamente,  nella  imputazione, sotto il profilo
 del concorso formale, all'ipotesi della calunnia e della diffamazione
 e nel quale il g.u.p. ebbe a prosciogliere l'imputato  dalla  ipotesi
 di  calunnia,  reputando sussistere solo il reato di diffamazione sul
 rilievo che l'imputato aveva inoltrato una serie di esposti a diverse
 autorita' nei quali esprimeva giudizi  denigratori  senza  pero'  che
 essi   consistessero   nella   attribuzione  alla  p.o.  di  condotte
 penalmente rilevanti.
    Orbene ad analogo risultato  non  potrebbe  pervenirsi  quando  il
 fatto  fosse  esattamente  enunciato  nei  suoi  elementi essenziali,
 mentre erronea risultasse la individuazione e descrizione di elementi
 c.d. accidentali.
    Ecco allora che, se si volesse sostenere  che  in  ogni  caso  non
 sarebbe possibile procedere alla esclusione di circostanze aggravanti
 in  forza  di  ragioni  sistematiche,  i  profili di irragionevolezza
 permarrebbero, ed anzi si rafforzerebbero,  estendendosi  all'insieme
 delle  norme sopra indicate, oggi ancor piu' incompatibili con il re-
 gime sostanziale.
    Passando  ora  ad  altri   aspetti   della   questione,   comunque
 conseguenziali  a quelli gia' svolti, va detto che nel caso in cui il
 p.m. dovesse contestare  una  aggravante  palesemente  insussistente,
 come   lamentato   nel   caso   de  quo,  per  errore  od  al  limite
 capziosamente, verrebbe a distogliere l'imputato dal giudice naturale
 precostituito per legge senza alcun sindacato.
    E poiche' la precostituzione per legge  del  giudice  naturale  si
 identifica   sostanzialmente   nele  previsioni  determinative  della
 competenza,  appare  indubbio  che  rispetto  alla  celebrazione  del
 giudizio  abbreviato nel caso in cui il processo si svolga secondo le
 sue linee tipiche con il passaggio attraverso l'udienza  preliminare,
 giudice  funzionalmente  competente  per  il  rito  abbreviato  e' il
 giudice di detta udienza.
    E potrebbe accadere che anche in presenza  di  una  situazione  di
 definibilita'  allo stato degli atti (unica condizione essenziale sul
 piano struttuale processuale per una decisione  di  merito  che  deve
 svolgersi  sulla base degli elementi acquisiti al fascicolo del p.m.)
 il giudizio  potrebbe  essere  sottratto  al  giudice  competente  in
 maniera irrimediabile e senza ragionevole giustificazione.
    Appare invero indubbio che in presenza della acclarata
 definibilita'  allo  stato  degli atti il g.u.p. e' competente in via
 esclusiva a definire  il  giudizio  abbreviato,  ma  tale  competenza
 potrebbe  essere  aprioristicamente negata da una contestazione anche
 palesemente errata.
    E  mentre  in  tutti gli altri casi di sottrazione del processo al
 giudice cometente, specie per materia o  funzionalmente,  il  sistema
 prevede  meccanismi che assicurino interventi volti al rispetto delle
 regole violate, nel caso di specie la  sottrazione  e',  come  detto,
 irrimediabile,   con   il   passaggio   del   processo  ad  una  fase
 completamente diversa da cui non puo' retrocedere,  cio'  tornando  a
 rilevare   anche   sul  piano  della  violazione  dell'art.  3  della
 Costituzione, oltre che ovviamente dell'art. 25, primo  comma,  della
 Costituzione.
    Ne'  il  rimedio  sembra offerto dalla eventuale riduzione di pena
 all'esito  del  dibattimento,  qualora  si  ravvisi  che  in  realta'
 l'aggravante  che  determinava  lo  spostamento  della pena da quella
 temporanea a quella dell'ergastolo non sussiste,  cosi'  come  accade
 nel  caso  di dissenso del p.m. o di valutazione di non definibilita'
 ritenuti erronei.
    La situazione appare del tutto diversa,  posto  che  nel  caso  di
 mancata   valutazione   positiva   dei   vari   soggetti  processuali
 (richiedente, p.m. e g.u.p.) circa la definibilita' allo stato  degli
 atti non si pone una questione di competenza, che rimane solo sul pi-
 ano  ipotetico  e potenziale e non puo' esplicarsi mancando lo stesso
 oggetto del giudizio abbreviato.
    Nel caso di  specie,  invece,  anche  qualora  si  esprimesse  una
 valutazione  di  definibilita'  (che appare invero ricorrere dato che
 tutti  gli  elementi  di  giudizio  sono  acquisiti,  anche  con   la
 formazione   di   vera   e   propria   prova  attraverso  l'incidente
 probatorio), una imputazione che potrebbe risultare erronea, in punto
 di fatto e di diritto, sottrarrebbe al g.u.p. il giudizio abbreviato.
    Anzi puo' dirsi che in radice neppure la valutabilita' allo  stato
 degli  atti e' direttamente verificabile proprio per la pregiudiziale
 rappresentata dalla contestazione.
    La insindacabilita' della stessa appare  altresi'  porre  problemi
 sul  piano  della  compatibilita'  con il secondo comma, dell'art. 24
 della Costituzione, atteso che il  p.m.  formulando  una  imputazione
 anche  in  ipotesi  palesemente  erronea  puo'  impedire  senza alcun
 controllo l'accesso al rito abbreviato.
    E non v'e' dubbio che  cio'  incide  sul  diritto  di  difesa  che
 comporta  anche  la  possibilita' di operare scelte strategiche quali
 quella  della  richiesta  di  abbreviato  che  evidentemente  non  ha
 conseguenze  solo  sul piano sanzionatorio attraverso la riduzione di
 pena in caso di condanna.
    Il rito abbreviato infatti offre tutta una serie di vantaggi volti
 a sollecitare una definizione rapida del processo, tra cui non  vanno
 certo  trascurati  lo stesso interesse ad evitare l'udienza pubblica,
 che  per  taluni  imputati  puo'  prospettarsi  come  particolarmente
 pregiudizievole   per   la   propria   personalita'  e  sensibilita';
 l'interesse strategico a giocarsi le proprie carte sulla  base  degli
 atti  acquisiti  che  consentono la definizione del giudizio evitando
 l'ingresso di ulteriori elementi (interesse che puo' essere non  solo
 del  p.m.  ma  anche dell'imputato); la valutazione della limitazione
 delle possibilita' di appello offerte al p.m.
    Ecco che le possibilita' di recuperare in ogni caso  la  riduzione
 di pena all'esito del dibattimento, cui fa riferimento la sentenza n.
 163/1992,  non  sembrano  risolvere  il  problema, non consentendo di
 porre rimedio alle ulteriori, rilevanti limitazioni  della  strategia
 di difesa.
    Certo  potrebbe  obiettarsi  che anche in caso di erroneo dissenso
 del  p.m.  verrebbe  a  determinarsi  una  tale  situazione,  ma   la
 fattispecie appare obiettivamente diversa.
    E'  infatti  del  tutto  ragionevole  che  a fronte dell'interesse
 dell'imputato venga fatto prevalere quello del p.m.  che  con  libera
 valutazione  puo'  ritenere  inadeguati  gli  elementi  contenuti nel
 proprio fascicolo ed indispensabile un loro sviluppo  dibattimentale,
 essenziale  per la ricerca della verita', cosi' che il recupero della
 riduzione di pena in caso di erronea  od  ingiustificata  valutazione
 sembra  consentire  un  adeguato  e  soddisfacente  bilanciamento  di
 interessi.
    Nel caso in questione invece  non  si  prospetta  alcun  interesse
 rilevante  del  p.m. al passaggio alla fase dibattimentale, cosi' che
 il diritto di difesa e' compresso senza alcuna plausibile ragione.
    Ne' infine puo' essere sottaciuto che la possibilita' nel caso  de
 quo  della  riduzione della pena in dibattimento non appare del tutto
 pacifica, se e' vero  che  per  consentirla  nel  caso  del  dissesto
 ritenuto  ingiustificato  la Corte costituzionale e' dovuta pervenire
 alla espressa declaratoria di illegittimita'  costituzionalmente  del
 combinato  disposto  degli artt. 438, 439, 440 e 442 c.p.p. (sent. n.
 23/1992) cosi' ridescrivendo l'insieme normativo che solo con qualche
 forzatura potrebbe in via analogica consentire la riduzione  di  pena
 nel caso in cui venga ritenuta erronea l'imputazione.
    Puo'  a  tal  proposito rilevarsi che la possibilita' di riduzione
 della  pena  in  sede  dibattimentale  e'  legata  al  controllo  del
 parametro  valutativo  di merito della definibilita' allo stato degli
 atti e, in particolare, della congruita' della  motivazione  espressa
 sul punto dal p.m. in sede di udienza preliminare.
    Nel  caso  invece  di  contestazione  ostativa il p.m. si limita a
 rigore a far rilevare la inammissibilita' del  rito  e  neppure  puo'
 esprimersi sulla definibilita' allo stato degli atti, cosi' che manca
 un  indispensabile  elemento  per  poter  addivenire  alla  riduzione
 dibattimentale.
    La mancata previsione della possibilita' per il g.u.p. di operare,
 quando cio' sia consentito dal materiale  acquisito  e  si  ravvisino
 profili    di   legittimo   dubbio,   un'analisi   preventiva   della
 contestazione onde verificarne la correttezza, al fine di evitare che
 la formulazione della stessa da parte  del  p.m.,  se  arricchita  di
 aggravanti insussistenti precluda irrimediabilmente l'accesso al rito
 abbreviato,  sembra violare altresi' l'art. 101, secondo comma, della
 Costituzione.
    Il giudice infatti risulta cosi' soggetto e  non  gia'  solo  alla
 legge,  bensi'  ad  una  scelta del p.m. che potrebbe essere erronea,
 paradossalmente  anche  capziosa,  senza   alcuna   possibilita'   di
 sindacato giurisprudenziale.
    La  serieta'  e  gravita' dei problemi sin qui prospettati risulta
 significativamente colta nel disegno di legge governativo in  materia
 di  riordino  del  giudizio  abbreviato,  approvato dal Consiglio dei
 Ministri il 5 marzo 1993, tanto  che  all'art.  3,  terzo  comma,  e'
 testualmente previsto che "se vi e' stata richiesta dell'imputato, il
 giudice  ammette  il  giudizio abbreviato anche quando ritiene errata
 l'imputazione di un delitto punibile con l'ergastolo".
    Certo  da tale dato non puo' in alcun modo di per se' desumersi la
 illegittimita' costituzionale delle norme che  verrebbero  modificate
 dalla   novella   legislativa,   ma   e'  indubbio  che  l'intervento
 governativo, nel momento in cui  ribadisce  la  inammissibilita'  del
 rito  per  delitti  puniti  con  pena dell'ergastolo tende a superare
 quelle che vengono ritenute evidenti incongruenze.
    Che poi tali incongruenze si  risolvano  in  violazioni  di  norme
 costituzionali e' altro problema.
    Rispetto ad esso le valutazioni sopra espresse inducono fortemente
 a  dubitare  che  il combinato disposto degli artt. 438, 439, 440 del
 c.p.p. sia conforme agli artt. 3, 24, secondo comma,25,  101  secondo
 comma,  della  Costituzione  nei limiti e per le ragioni evidenziate,
 ritenendosi cosi' la questione sollevata dalla  difesa  dell'imputato
 non  manifestamente  infondata e quindi meritevole del supremo vaglio
 della Corte costituzionale.
    Quanto  alla  rilevanza  della  questione  essa  e'  nelle   cose,
 derivando   dalla   stessa   richiesta  di  abbreviato  a  fronte  di
 contestazione  di  delitto   circostanziato,   percio'   punito   con
 l'ergastolo,  con contestuale sollecitazione del g.u.p. a valutare la
 corretta  formazione  dell'aggravante  acritta   e   ad   escluderla,
 contentendo cosi' l'ingresso al rito, salva ovviamente la valutazione
 della  definibilita'  allo  stato degli atti, inibita per la radicale
 inammissibilita' del rito stesso.
    Ne' tragga in inganno la valutazione di dissenso comunque espressa
 dal p.m. circa la definibilita' del giudizio, verbalizzata  in  atti,
 dovendosi  dare atto che nel corso della discussione il rapresentante
 della  pubblica  accusa  si  e'  in  realta'  soffermato  solo  sulla
 pregiudiziale  questione di inammissibilita', precisando di non poter
 allo stato motivare sotto altri profili il  proprio  dissenso,  cosi'
 come meglio precisato in data odierna dallo stesso p.m.
    D'altronde appare evidente che la problematica della definibilita'
 allo  stato degli atti e l'eventuale consenso o dissenso da parte del
 p.m. sul punto, cosi' come la stessa  valutazione  del  g.i.p.,  sono
 aspetti  affrontabili  solo  qualora  fosse  possibile, e di fatto si
 operi, la rimozione dell'aggravante ostativa in via assoluta al rito.